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Proculturalità: la cultura come strategia in ambito internazionale

di Paolo Masciocchi

Il bene culturale nel diritto internazionale

La cultura come argomento strumentale allo sviluppo delle relazioni internazionali è stata oggetto di parziale valorizzazione, con un’evidente priorità di interesse conferita agli elementi materiali che la caratterizzano. Numerose convenzioni e trattati degli ultimi decenni si sono focalizzati su alcune specificità del bene culturale, inteso come prodotto atto alla circolazione e allo scambio. Si tratta di un tipico caso di armonizzazione transnazionale di aspetti accessori alla tutela privatistica o pubblicistica della circolazione dei beni, che certamente tocca la cultura, trovando spazio di interesse e copertura negli accordi pattizi. È il caso della Convenzione Unesco del 1970 o la Convenzione Unidroit del 1995, che disciplinano (la prima) i vincoli nei trasferimenti di questo specifico tipo di beni, indicati in un elenco chiuso, e (la seconda) la loro restituzione. In altri contesti trattatistici, la tutela del patrimonio culturale è stata introdotta per assicurare protezione a luoghi fisici (siti, complessi, monumenti) identificati per particolare significatività (Convenzione Unesco del 1972) o il patrimonio archeologico (Convenzione europea del 1969). In continuità con tale modello di protezione diffuso nel diritto internazionale, anche il Trattato UE dispone di un’apposita area normativa relativa a prodotti materiali di natura artistica o archeologica. Si comprende che i luoghi e i manufatti statici ai quali è stato attribuito outstanding universal value, ovvero sono divenuti oggetto di attenzione del diritto internazionale, non vadano valutati solo nel valore intrinseco, bensì costituiscano un aspetto di tutela degli interessi degli Stati alla circolazione delle persone e alla crescita dell’attenzione intorno alla cultura “visibile”: questioni di nobile caratura nella breve storia della globalizzazione dei beni culturali, che tuttavia rendono preponderante un approccio tematico concentrato sugli aspetti tangibili, dove la materialità circoscrive efficacemente l’oggetto della tutela. Si tratta di pochi esempi (tra i molti documenti pertinenti) che, sulla base di un criterio di analisi per tipicità dell’oggetto, mostrano come sia stato possibile costruire un approccio significativo di valorizzazione del tema in ambito internazionale, a partire dall’immunità concessa al patrimonio dei beni culturali e ai legami con gli interessi sociali, economici e giuridici interni agli Stati.

La cultura come bene immateriale

Il patrimonio culturale immateriale, quale oggetto trattatistico, è caratterizzato da un’ampia definizione di partenza e da percorsi di effettività delle tutele ristretti. Quanto alla definizione, la cultura come bene immateriale consiste per lo più in un elenco di contenuti suddivisi per genere. Tale approccio si presta, per metodo, oltre che per la natura di ogni forma di elencazione, a maggiore mutevolezza dell’effettiva promozione dell’immaterialità culturale in ogni contesto geopolitico. Senza che possano essere identificate peculiarità trasversali della cultura come bene, atte a tipizzare il diritto internazionale in materia, è evidente la difficoltà di costruire uno sviluppo di ogni materia di interesse internazionale in questo campo. Per fornire qualche esempio, nell’Unesco, l’Intangible Cultural Heritage (ICH) si riferisce precisamente al retaggio di fattori non fisici di un certo luogo, comprendendovi lingua, folklore, tradizioni, conoscenza, linguaggio, credenze: si tratta di elementi che caratterizzano le relazioni umane in un territorio, dandovi una connotazione identitaria in cui singoli e collettività possano trovarvi riconoscimento. Sul piano trattatistico, i documenti elaborati dalle organizzazioni internazionali e siglati dagli Stati inquadrano soprattutto fini di promozione e affermazione della cultura. Tra i primi documenti a contenere tali riferimenti, vi sono la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, i successivi Patti in ambito ONU del 1966 (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e Patto internazionale sui diritti civili e politici, in particolare all’art. 27) e la Convenzione dell’Aja per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato del 1954. Un quadro non dissimile per contorni e dichiarazioni è presente in ambito europeo, sulla linea della Convenzione culturale europea del 1954, che indica fini di mero incoraggiamento integrativo e di scambio. Molti anni dopo, il Trattato UE ha fissato alcuni elementi caratterizzanti la cultura e utili ai fini dell’Unione, in un titolo del documento ad essa dedicato. In tale ambito si propone di integrare l’azione degli Stati membri nella conservazione e nella salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea (art. 151), indicando inoltre un programma (“Cultura 2000”) che introduce l’azione dell’Unione europea nell’incoraggiare la cooperazione e nel miglioramento della conoscenza della cultura e dello scambio dei popoli europei (art. 167 II comma). Pur con le debite differenze tra piano globale ed europeo, si evidenziano elementi di fondo comuni che collocano la cultura come bene immateriale quale fattore non prioritario – o accessorio – nelle relazioni internazionali.

Il modello dei diritti culturali

L’assetto giuridico che solitamente gli studiosi riconoscono all’organizzazione degli elementi immateriali della cultura nel contesto internazionale si inquadra nei cosiddetti “diritti culturali” (Cassese, 2005; Stamatoupolou, 2007; Zagato, 2011). Questa configurazione asseconda certamente il linguaggio pattizio rinvenibile nelle Convenzioni dell’Onu e dell’Unesco. Sebbene sia suggestivo pensare a una categoria di diritti che si riferiscano alla cultura, il vaglio uniforme ne risulta estremamente arduo, dato che perfino la definizione tecnica non è univoca, per lo più indicando genericamente l’insieme dei tratti distintivi della vita di un certo gruppo sociale (si veda per una sintesi la Dichiarazione di Friburgo sui diritti culturali, 2007). In primo luogo, i diritti culturali non risultano omologhi per contenuto e applicazione ad altre categorie di diritti oggetto di pratiche consolidate nelle comunità politiche (diritti civili, politici, economico-sociali). Ciò in quanto le posizioni giuridiche soggettive “classiche” (così almeno nei Paesi occidentali) attengono a forme di universalizzazione tipizzate in modo più chiaro nel contesto giuridico della cittadinanza negli Stati (Marshall, 1949). Difficile discutere di diritti civili, politici ed economico-sociali senza tener conto dello sviluppo di alcuni assetti ed equilibri istituzionali entrati nelle Costituzioni dopo la Seconda Guerra mondiale, sintetizzando anche una certa forma di cultura, per l’appunto occidentale-europea, che assume come standard il percorso che dal liberalismo (diritti civili) conduce ad una fase di democratizzazione (diritti politici) per poi compensare gli squilibri socio-economici tra i cittadini mediante interventi di Welfare (diritti economico-sociali). Tali categorie sono state concepite pertanto secondo uno sviluppo bicentenario storico, giuridico, sociale ed economico coerente in diversi Paesi, che certamente ha messo in luce i benefici di una progressività armonica delle tutele dei singoli, ma pur sempre come frutto di una cultura espansiva dei diritti che non procede con gli stessi strumenti in tutti i Paesi del mondo. Tale modello di tutela della cittadinanza è certamente più spendibile nel contesto statuale, dove mostra ricadute di effettività dei diritti nel complesso dell’applicazione delle norme degli ordinamenti, della coesione delle comunità politiche e delle visioni programmatiche delle Costituzioni. Oltre i confini degli Stati, richiederebbe una governance difficile per la mancanza di pari presupposti sociali e ordinamentali, con l’ulteriore difetto che l’elenco dei tradizionali diritti di cittadinanza, per come è stato finora inteso, non si può allargare agilmente ai diritti culturali. Infatti, da un lato la cultura nell’ambito dei diritti rinvia allo stesso tempo ad aspetti rilevanti della persona e delle comunità (Carcione, 2003), rendendo più complesso il percorso di affermazione di una tipologia giuridica omogenea e pensata soprattutto per la tutela dei singoli (tale è il concetto di diritto soggettivo). D’altra parte, è proprio la peculiarità della cultura come fattore complesso, insieme individuale e sociale, a porre un interrogativo sull’efficacia del suo impiego, espresso finora in questi termini, nelle convenzioni internazionali.

Le aspirazioni irrisolte nei Trattati

Sul tema dei diritti culturali, alcuni documenti dell’Onu sono intervenuti a sostegno di questioni emergenziali riferibili alla cultura, con particolare attenzione alle minoranze (è il caso della Dichiarazione dei diritti sulle minoranze del 1992, o la più recente Dichiarazione dei diritti universali delle popolazioni indigene del 2007). Nel contorno e nella sostanza di queste Dichiarazioni internazionali si intravedono i tratti tipici del multiculturalismo, modello di integrazione notoriamente nato in risposta all’assimilazionismo in ambito americano e poi diffuso globalmente. Si tratta di una modalità di approccio alla cultura, spesso usata per offrire tutela nelle relazioni tra appartenenti a diverse etnie all’interno degli Stati, con un linguaggio dichiarativo che ben si accosta a quello impiegato nei trattati degli ultimi decenni. Il multiculturalismo si esprime mediante un meccanismo di rilievo simbolico delle culture come identità da tutelare, in un contesto dichiarativo e con l’attenzione al tema dell’integrazione a partire da emergenze discriminatorie; è divenuto dominante sebbene abbia mostrato di proporre una certa visione statica dell’identità sociale, di difficile adattabilità allo sviluppo dinamico dei contenuti culturali in relazione, mostrando al contempo molti limiti di definizione strategica (Sennett, 1977; Masciocchi, 2017). Le politiche multiculturaliste (e interculturaliste) hanno sovrapposto e delimitato la cultura al tema dell’identity politics, ossia a quel complesso di contenuti rivendicativi di specificità dei popoli e delle persone rispetto ad istituzioni che avrebbero il compito di tutelarli. Questa attitudine complessiva e dominante nel panorama globale, oltre ad aver contribuito ad una mancata armonizzazione delle strategie delle relazioni internazionali, ha reso visibili gli scontri e le difficoltà più che i risultati positivi dell’incontro tra le diversità (Masciocchi, 2017). Un ulteriore limite degli strumenti pattizi dal contorno multiculturale è stato percepito anche nella scarsa attitudine a promuovere l’universalizzazione della cultura, avendo a cura come presupposto logico la diversità (Prott, 2001). In realtà, l’indagine sugli aspetti immateriali della cultura alla fine degli anni Sessanta aveva indotto l’Unesco ad investire molte aspirazioni nella preparazione di un documento apposito che contenesse qualche ulteriore potenzialità strategica. Si tratta della Dichiarazione sui diritti culturali in quanto Diritti dell’Uomo, che mai trovò approvazione nell’Assemblea generale, pur portando con sé alcune rilevanti novità sul modo di intendere la cultura nelle relazioni internazionali. Il progetto prevedeva alla sua conclusione la promozione di un tipo di cultura spendibile sia sul piano locale sia su quello globale, quale “possibilità per ciascuno di sviluppare la sua personalità, grazie alla partecipazione diretta alla creazione di valori umani”. Risulta di interessante rilievo negli atti l’intervento di Boutros Ghali (allora accademico e divenuto solo successivamente Segretario Generale dell’Onu), che individuava i presupposti pratici di tale visione nell’“accesso alla conoscenza, alle arti e alle lettere di tutti i popoli”, così come la possibilità di “partecipare al progresso della scienza e di godere dei suoi benefici, di portare il proprio contributo all’arricchimento della vita culturale”, secondo una visione attiva della persona nella comunità nel fare la cultura, visione presente in altri esperti dell’ispirato consesso parigino del 1968 (C.G. Argan, in particolare; per l’inquadramento di tali interventi, si rinvia a Carcione, 2013 e, in questa direzione, a Ainis, 1988). Questa promettente visione, che mette al centro l’azione della persona e delle relazioni, è stata assorbita dalle sensibilità particolaristico-tutelative della cultura, ma è tuttora uno spunto utile per l’impostazione di nuove visioni.

Le premesse per un modello strategico della cultura

Quanto evidenziato nella ricognizione nell’ambito del diritto internazionale circa la secondarietà degli aspetti immateriali rispetto a quelli materiali, la loro poca uniformità inidonea a declinare una tipologia aggiunta di diritti soggettivi, e la scarsa propensione strategica del multiculturalismo induce a rivalutare un modello proattivo della cultura, come fattore per lo sviluppo delle relazioni tra gli Stati. In secondo luogo, lo sforzo delle diplomazie per contribuire alla pacifica conoscenza tra i popoli e alla stabilità degli scambi secondo prassi comuni porta a domandarsi se, per rafforzare l’effettività dei principi generali del diritto internazionale, possano darsi strumenti in grado di portare maggiore profitto dalle relazioni tra macrodiversità. In questo senso, la valorizzazione della cultura come leva per lo sviluppo delle relazioni internazionali è il presupposto di un mutamento di approccio più ampio, che riguarda complessivamente l’assetto degli accordi tra gli Stati e l’organizzazione dei rapporti diplomatici, fino alla costruzione delle fonti da cui tali rapporti procedono. Per compiere tale passaggio, che richiama le citate parole di Boutros Ghali e il quasi dimenticato contesto di elaborazione parigino, in primo luogo, è opportuno introdurre alcune modalità di azione relative ai beni culturali diverse da quelle finora apprezzate: 1. Il rilancio del bilateralismo – verificati i limiti del multilateralismo – come base di crescita dei contenuti culturali attraverso nuovi strumenti di cooperazione internazionale; 2. La considerazione della cultura come strumento della conoscenza operativo nei rapporti tra gli Stati; 3. La visione della cultura come bene complesso rilevante nell’ambito socio-economico, strettamente legato sia alla persona che alla comunità. Di seguito saranno valutate distintamente come elementi di sviluppo della cooperazione tra gli Stati e quindi in modo organico come strategia complessiva.

I limiti del multilateralismo – L’esempio italiano

Le organizzazioni internazionali (Onu, Unesco) e molti Paesi aderenti hanno fatto del multilateralismo il modello primario di promozione della cultura all’interno e tra gli Stati. Come precedentemente sottolineato, le Convenzioni e le Dichiarazioni universali costituiscono una cornice istituzionale tipica entro la quale perseguire obbiettivi del diritto internazionale, ma l’impiego di tali strumenti multilaterali ha visto sorgere alcune difficoltà nell’elaborare una visione generale utile a governare un oggetto tanto sfuggente e articolato. Nell’ambito dell’immaterialità, questo approccio si traduce in una forma più dichiarativa ed elencativa che regolamentativa, una forma di soft law che, pur puntando alla costituzione di diritti culturali come strumento principe del modello di protezione internazionale della cultura, non ha creato i presupposti per la loro universalizzazione, e non può che demandare agli Stati la realizzazione degli obbiettivi concreti delle politiche internazionali sui diritti, specie ove sorgano dei potenziali temi di conflitto politico, di discriminazione o di clash of cultures. L’Unesco ha predisposto strumenti intergovernativi per agevolare questi risultati, che prevedono controllo, finanziamenti e azioni concordate. Si tratta di strumenti intermedi votati a colmare i vuoti lasciati dalle organizzazioni internazionali, alimentando anche una partecipazione di soggetti minori e locali. Per quanto queste soluzioni siano state ritenute in alcuni casi efficaci (Macchia, 2010), esse richiedono una scomposizione dall’alto dell’attività di cooperazione internazionale, oltre che un impiego di risorse considerevole, senza improntare una via di armonizzazione delle pratiche. Sul piano degli Stati, la ricezione di questo modello pare abbastanza diffusa. In Italia, i dati Ocse (aggiornati all’anno 2018) mostrano che l’investimento sull’aiuto pubblico allo sviluppo ha preferito di gran lunga la linea multilaterale.

Spese in milioni di dollari

Sempre analizzando l’esempio italiano, a questi dati di tendenza si è aggiunto un mutamento normativo in materia che pare non aver dato linee innovative sul piano strategico, sebbene promettesse di guardare con attenzione alle relazioni internazionali a partire nel maggiore coinvolgimento di organismi non governativi, una novità di sicuro interesse. La legge n. 125/2014 ha introdotto una disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo che coinvolge anche soggetti nuovi provenienti dalla società civile in seno ad un organismo di coordinamento pubblico a stretto contatto con il Ministero degli Affari Esteri (si tratta dell’AICS, Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo). Appare fin dalla sua costituzione che organismi di questo genere siano votati al perseguimento di obbiettivi e azioni di sostegno di Paesi con fragilità (si veda la delibera n. 141/2020 del Comitato Congiunto AICS), in ottica multilaterale per tematiche di intervento. D’altra parte, nella struttura organizzativa, l’azione di tale organismo si avvale di articolate partecipazioni (il Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo e il Comitato interministeriale di cooperazione allo sviluppo) che riducono lo slancio delle azioni concertabili con soggetti non governativi. Per la stessa fisionomia istituzionale descritta, i documenti di programmazione strategica triennali individuano contenuti molto generici e di rinvio alle linee tracciate da fonti superiori. Ad esempio, nel documento di programmazione strategica 2017-2019, l’unico ad intervenire sul piano di interesse qui ricostruito, lo spazio di considerazione della formazione e della cultura è comunque molto limitato (parr. 2.8-2.9, due pagine), mostrando che il nuovo organismo non si presta ad altre azioni strategiche che non siano di mero coordinamento. Invero, ciò è una naturale conseguenza della scelta di un modello top-down, che davanti a realtà molto diverse e ad informazioni frammentarie, non interdipendenti, può agire solo entro perimetri ristretti. In sintesi, sia sul piano delle organizzazioni internazionali, sia nel contesto statuale, è in atto una riflessione sugli organismi intermedi, tuttavia ancora poco efficiente, non attenta al tema dell’immaterialità e caratterizzata da una predisposizione multilaterale dai molti limiti.

Un nuovo bilateralismo – Il Trattato internazionale proculturale

Si potrebbe a questo punto ripensare al rapporto bilaterale tra gli Stati per fornire risposte più significative ed efficaci. In particolare, gli obbiettivi delle relazioni internazionali possono essere concentrati nello sviluppo delle finalità precipue dei cittadini che aspirano alla (o già sono coinvolti nella) relazione tra due Paesi specifici, nonché delle associazioni e dei gruppi che operano verso le finalità di reciproco coinvolgimento. In qualche misura, è una sensibilità già presente in alcune recenti prospettive di interesse internazionale. Ad esempio, nell’estate 2021, la Presidenza della Repubblica Italiana ha richiamato l’attenzione sulla costruzione di un accordo bilaterale con la Francia, il c.d. “Trattato del Quirinale” (fermo nei cantieri della diplomazia dal 2018), progetto così chiamato in analogia al Trattato dell’Eliseo del 1963, che permise a Francia e Germania di costruire un asse di interessi permanente risultato decisivo per gli equilibri europei negli anni a seguire. Si tratta di un progetto dalle grandi aspirazioni di cooperazione internazionale rafforzata su temi di ampio respiro, che tuttavia terrebbe conto della costruzione di esperienze operative dal basso, quali il servizio civile comune tra i due Paesi. La difficoltà strategica di realizzare accordi bilaterali basati su questo doppio registro di azione, che vorrebbe incidere su una sensibilità culturale verso un patrimonio comune oltre che a rispondere ad interessi nazionali sul piano del rafforzamento reciproco, risiede nella separatezza della partecipazione dal basso rispetto agli obbiettivi ultimi degli Stati (specie se questi ultimi fossero orientati al piano geopolitico-commerciale). Uno sviluppo degli accordi bilaterali richiede pertanto una strategia adeguata e di lungo periodo, in grado di creare più ampi spunti di collegamento tra i programmi di relazione tra le cittadinanze e le istituzioni dei Paesi coinvolti. Allargando lo sguardo, in tal senso è possibile operare su un piano di complessità che permetta di utilizzare le esperienze condivise in modo continuativo e che consideri la cultura non solo come elemento simbolico-identitario entro il quale far convergere diritti e consuetudini entro una cornice di interessi più ampi, ma anche come nuova modalità di rafforzamento dei legami tra i Paesi fin dalla costruzione degli accordi, con una notevole spinta dal basso. Lo strumento utile a questo fine può essere identificato in un Trattato internazionale bilaterale proculturale, ossia un documento pattizio che abbia come specifico fine le relazioni culturali proattive tra i cittadini di due Stati, nell’interesse governativo di entrambe. La proculturalità è un modello di sviluppo della conoscenza operativa nel rapporto tra popoli o tra persone di differenti origini etniche, sulla base di formazione, informazioni, relazioni istituzionali e di scambi dall’elevato fattore di efficienza. In questa definizione si predilige il concetto di efficienza, a quello di efficacia o di effettività, più tipiche del linguaggio giuridico, perché al cuore del modello proculturale vi sono fattori operativi ad alta incidenza organizzativa propri dell’analisi socio-economica, come si dirà più avanti. La proculturalità risulta distinta e complementare rispetto ad altri modelli di organizzazione della cultura per la promozione dell’incontro tra differenze, come il multiculturalismo e l’interculturalismo. Nel caso di queste ultime, risultano primari gli obbiettivi di riconoscimento delle identità e di tutela delle possibili ricadute conflittuali nelle specifiche esperienze di incontro tra etnie e culture, nel senso particolaristico del termine. In termini di diritto, le pratiche multiculturali e interculturali si accompagnano solitamente a fonti prescrittive e a strumenti di tutela amministrativi e giurisdizionali che circoscrivano i possibili conflitti e incentivino simbolicamente le dinamiche di relazione tra diversità. Si tratta soprattutto di pratiche del diritto interno agli Stati, che possono assurgere anche al livello costituzionale (come nel caso canadese e australiano), sia in funzione di tutela delle minoranze etniche, sia con la finalità di esprimere un contenuto riconoscibile di elementi identificativi delle specificità (Kymlicka, 1999). In ambito internazionale, come si è avuto modo di accennare, la visione dell’identity politics è rimasta sullo sfondo inducendo a regolare, secondo formule dichiarative, i caratteri particolari della cultura che si intendono tutelare, con riferimento ai trattati multilaterali degli organismi internazionali, risultando invece piuttosto arduo il tentativo di condurre tradizioni giuridiche e sociali lontane da quelle occidentali ad accettare il modello dei diritti culturali e della loro giustiziabilità come riferimento comune. Nell’esercizio del modello della proculturalità, il piano giuridico descrittivo/elencativo o quello prescrittivo, distinti o combinati, non consentono di raggiungere l’efficienza nelle relazioni internazionali, perché inadatti alla composizione nel lungo periodo di attività condivise e fondate sull’operatività di una cultura comune in formazione. Nel primo caso, le formule elencative determinano una staticità degli elementi culturali di interesse pattizio senza entrare nel merito di come tali aspetti integrino modalità di sviluppo delle relazioni, nel secondo caso l’atteggiamento prescrittivo è incline a evidenziare i temi di conflitto, più che aprire le prospettive degli Stati a una cooperazione permanente su basi strategiche. Pertanto, è necessario introdurre una terza via di regolazione dello strumento culturale nel contesto internazionale, né descrittivo-dichiarativa, né prescrittiva, trattandosi certamente di una materia di interesse giuridico che tuttavia non può essere ridotta a formulazioni cristallizzanti a carattere antropologico o ad atteggiamenti sanzionatori, per quanto intesi a perseguire effetti di tutela. È una via operativa, in grado cioè di attraversare la complessità dei fenomeni e dell’ambiente internazionale composito, cui si riferisce, per raggiungere risultati fattivi di cooperazione, evitando formule dichiarative riduzionistiche tese ad allineare le differenti culture. Al contempo, tale via, sempre in funzione di un’auspicata efficienza delle relazioni internazionali, sarà performante ove consenta di individuare, ai fini della valorizzazione del comune terreno culturale, priorità di contenuto e linee-guida di azione di pronta riconoscibilità per gli Stati e per i soggetti di diritto beneficiari.

Le basi metodologiche del Trattato internazionale proculturale

La declinazione operativa dei contenuti immateriali sul piano tecnico-formale comporta l’introduzione di novità nell’architettura di un possibile accordo bilaterale con tale primario oggetto. Intanto, l’approccio della proculturalità, ossia l’agire proattivo per la composizione delle diversità verso una cultura condivisa nelle ricadute pratiche, richiede una premessa metodologica. Il concetto di cultura, che qui interessa, è riferito a caratteri di generalità nel definire il piano di relazione bilaterale, secondo un criterio di maggior attitudine di alcune caratteristiche e peculiarità strumentali – presenti tra le consuetudini, la storia degli Stati, le prassi socio-economiche e i popoli in relazione –, a realizzare obbiettivi comuni. In sostanza, il primo lavoro da svolgere per la redazione di un trattato proculturale è la fine analisi dei contenuti delle culture particolari di origine dei due popoli, per trarre indicazioni in grado di formare un humus relazionale comune, in quanto determinante per l’intendimento delle operatività che ne scaturiranno. Questa modalità di riferire alla cultura come aspetto generale di interesse socio-giuridico trova specifiche giustificazioni di metodo. Più precisamente, la modalità per la quale un certo argomento risulta di primario interesse, al fine di costituire un terreno comune avente ad oggetto la cultura, può essere ricondotta ad uno sviluppo degli studi di medio raggio della sociologia (Merton, 1957; Marshall, 1963). Quando nacque questo filone di ricerca, si intendeva promuovere l’idea che un approccio a carattere teorico-pratico si prestasse ad una maggiore utilità per l’indagine dell’agire sociale, rispetto alla più frequente consuetudine metodologica di delineare grandi modelli astratti sul piano teoretico per ottenere successivamente conferme empiriche della loro solidità. Un ulteriore risvolto di tale approccio risiedeva nel fatto che alcuni specifici fenomeni sociali erano ritenuti maggiormente adatti ad un inquadramento di “medio raggio”. In sostanza, un fenomeno sociale diviene tanto più rilevante se permetta di delineare una componente euristica nello spazio della riflessione teoretica e al contempo un risvolto pratico nel contesto dell’indagine empirica, avvicinando le due fasi. Un esempio storico di applicazione di questo modello, utile a una sintesi, è il già citato studio dell’evoluzione della cittadinanza, intesa come fondamento del legame di una comunità politica, compiuto da Thomas Marshall nel dopoguerra. Il sociologo inglese si accorse che la cittadinanza, assunta come fenomeno e campo di studio, fosse un attrattore di elementi di natura sociale, storica, giuridica, economico-politica di notevole ampiezza e al contempo si rivelava istituto dai numerosi risvolti pratici per definire e tutelare la realizzazione della persona. Un tale oggetto di studio permetteva di inquadrare, in un’unica riflessione, le strategie di sviluppo degli Stati, la crescita dei diritti e delle libertà individuali, nonché una base universalistica di riferimento per la comunità politica (Marshall, 1949). Il modello marshalliano, per quanto rivisto e criticato negli anni, è ancora considerato una pietra miliare nel campo delle scienze sociali. Come anticipato, è possibile riportare e giustificare nel diritto internazionale questa intenzione metodologica con riferimento ad un determinato modello relazionale della cultura, assunta come fenomeno di medio raggio, tenuto conto che le prassi internazionali promuovono e legittimano un certo agire sociale, più che descriverlo, una differenza di non poco conto nella logica di sviluppo dell’approccio metodologico indicato. Accese queste riflessioni verso l’argomento che interessa, e pertanto premesso l’intendimento di non aderire ad un concetto di cultura avvolto da astrattezza (tipica dei fattori simbolici) o concepito e giustificato in dati spiccioli (come nelle formule elencative cristallizzate), è fondamentale prestare attenzione a quali siano gli elementi che consentano alla cultura di essere valutata come fenomeno utile ad un approccio di medio raggio. In particolare, nell’analizzare le singole caratteristiche degli Stati in relazione, è possibile prestare attenzione primaria a quei risvolti delle culture particolari che siano dotati di un carattere euristico, e al contempo sintesi di fattori prodromici ad un’azione congiunta dei fruitori ultimi delle relazioni internazionali. Alcuni di questi fattori immateriali possono essere rinvenuti studiando in ciascun Paese le modalità dell’educazione, dell’alta formazione, dei processi di sviluppo nella cultura di impresa in rapporto alle tradizioni e alle filosofie, delle strategie politiche storiche di circolazione dei cittadini fuori dai confini, delle matrici delle fonti primarie del diritto che promuovono la realizzazione della persona. Si tratta di aspetti che permettono di indirizzare l’intesa pattizia verso obbiettivi concreti e conseguenti alle effettive esperienze di confronto dei fondamenti degli Stati sottoscrittori. L’impiego della cultura come strumento diplomatico a carattere generale comporta ulteriori implicazioni. Infatti, le scelte tematiche ponderate nelle specificità relazionali degli Stati consentono di non incorrere in uno storico pregiudizio per il quale le formulazioni generali nell’ambito dell’agire sociale siano spesso associate al piano dei valori a detrimento del metodo, al contempo determinando una compressione delle prospettive particolari (Weber, 1922). L’obbiettivo delle relazioni internazionali, ricondotte a questo tipo di fattori immateriali, ha invece il pregio di attraversare fenomeni sociali complessi, dagli ampi contorni ed estremamente vari, senza riferirsi ad un’esplicita impronta valoriale prederminata, nel senso weberiano del termine. Come ricaduta di tale premessa, è fondamentale fare riferimento a un ambiente trattatistico, ossia ad uno spazio tecnico e operativo di condivisione riferibile a tutti i contenuti, relazioni e attività istituzionali sviluppabili congiuntamente nella relazione bilaterale, così che entro tale spazio sia consentito un costante controllo ed organizzazione delle azioni comuni coltivate dai cittadini in seno agli accordi.

Le ricadute metodologiche nell’ambiente trattatistico

Le premesse di metodo, legate alla strutturazione degli accordi, portano con sé molti effetti vantaggiosi rispetto ai tradizionali canali diplomatici. (a) Intanto, per tale via possono essere ridefiniti in modo pratico e non simbolico i concetti di pace, cooperazione, amicizia tra i popoli. La cooperazione diviene il risultato visibile dell’esperienza continuativa di soggetti, appartenenti a due Stati, che realizzano un’operatività internazionale, e costruiscono una formazione comune, tendente alla crescita e al consolidamento nel tempo. La pace può essere identificata con l’effetto di tutti i progetti realizzati, che determinano un patrimonio in crescita nelle relazioni tra i popoli. L’amicizia tra i popoli assume consistenza negli strumenti operativi ed istituzionali impiegati per affermare la cultura come strumento di relazione internazionale. (b) Un secondo aspetto, implementabile nell’architettura trattatistica in conseguenza di una strategia proculturale, è il recupero di elementi della tradizione storica a fini operativi, che consentano di motivare le operatività, ispirate dal trattato, in quanto concordi al retaggio e alla cultura particolare degli Stati in relazione. Tra gli aspetti che possono essere ricompresi in questo ambito, molto variabile a seconda dei popoli e delle relative istituzioni coinvolte, sono rilevanti solo quelli che consentano di governare la complessità delle informazioni utili allo sviluppo di piani comuni di azione e delle operatività che ne scaturiscono. Ad esempio, l’individuazione di aree storiche di cooperazione internazionale può essere incrociata con le prassi di sviluppo del patrimonio educativo degli Stati coinvolti negli accordi, così che lo spazio degli scambi studenteschi e dell’alta formazione dei ricercatori possa assumere un ruolo centrale non solo per l’esperienza dei singoli verso i propri obiettivi contingenti, ma altresì nella costruzione di una formazione di una classe dirigente di lungo corso, in grado di coltivare contatti trasversali ai Paesi e di coinvolgere le migliori competenze nei campi di interazione più promettenti, mantenendo una legittimazione storico-sociale anche nei motivi di fondo del proprio agire. In questo quadro, possono essere ricondotte le esperienze già esistenti, al fine di un’organizzazione più specifica per i fini degli accordi bilaterali. Nel caso di Paesi dalla lunga tradizione culturale, questo fattore diviene ancora più rilevante. Un esempio può essere dato dal caso cinese. La politica della Porta Aperta maturata a partire da Deng Xiaoping nel 1978 ha determinato un’attenzione al settore privatistico non solo nell’ambito dei consumi, spesso sottolineato come una delle prerogative dell’espansione economica cinese (Naughton, 1994). Piuttosto, la formazione all’estero di tanti giovani, che hanno riportato in patria elementi altrimenti della conoscenza determinanti in tanti campi del sapere, ha implementato un modello di sviluppo della cultura innovativo sia nell’ambito degli investimenti delle imprese sia nel contesto organizzativo dello Stato. Molti atenei o progetti infrastrutturali, anche metropolitani, non sarebbero sorti senza questo approccio (si pensi allo sviluppo dell’area di Shenzen, evidente conseguenza di questa politica). (c) Le politiche di circolazione delle persone e dei fattori immateriali a loro volta possono essere influenzate dalle modalità strategiche della politica internazionale presenti nelle consuetudini tra gli Stati contraenti, e dove queste siano storicamente assenti, è altrimenti possibile che i rapporti si costruiscano per via inversa, a partire dalla considerazione di fattori immateriali ancora inattivi del patrimonio culturale di un Paese. Lo sviluppo di nuove relazioni diplomatiche si può riferire ad aspetti profondi del retaggio storico-culturale dei popoli, alla realizzazione di finalità costituzionali, a elementi preordinamentali, alla considerazione dei motivi degli atteggiamenti migratori, ossia al campo più ampio dei fattori immateriali che riguardino storia, modelli istituzionali, e cultura delle relazioni tra i popoli. In entrambi i casi, il fattore culturale precede e investe quello della regolamentazione della proposta di un accordo, sempre da intendersi in senso progettuale-operativo e non prescrittivo. Per proseguire negli esempi, il governo cinese ha indicato di recente una base culturale nei rapporti interni ed esterni al Paese assimilabile a quanto sopra riportato, ossia la politica della “doppia circolazione” (come definita da Xi Jinping al Quinto Plenum del PCC), ancora in fase di definizione come modello di sviluppo in un Paese altamente autoctono nella produzione e dalla forte propensione allo scambio. Si consideri che, in contesti strategici complessi, attraverso elementi culturali come quest’ultimo è possibile individuare inaspettate strade di definizione istituzionale delle relazioni internazionali con attori in grado di supportare processi di sviluppo e di scambio, senza che tali processi coincidano immediatamente con approcci commerciali o aree di contesa geopolitica. L’impiego di strumenti culturali può divenire supporto a grandi reti multilaterali, come la Via della Seta, oppure procedere parallelamente in caso di ostacoli diplomatici. (d) Il vantaggio dell’impiego della cultura come leva del diritto internazionale è la possibilità di non bloccare processi di relazione, laddove vi siano crisi o alleanze impeditive sul piano geopolitico, che spesso rendono incompatibile per molto tempo la coltivazione di un terreno diplomatico. In tal modo, anche una posizione ostativa generata da accordi multilaterali, volta a limitare scambi commerciali o a imporre vincoli nell’ambito di rapporti particolari, può lasciare spazi al governo degli aspetti culturali secondo una visione della promozione della persona, e ad una negoziazione più orientata al lungo periodo con Stati in cui sia rilevabile una difficoltà interna (politica, economica, sanitaria) o di carattere internazionale. In sostanza, la presenza di un fattore neutro, come la cultura, è una modalità di permanenza di canali di comunicazione tra Paesi in ogni momento. (e) Altre premesse di cognizione comune a fini pattizi in ambito bilaterale possono essere individuate in tutti gli aspetti storici e immateriali implementati nella cultura d’impresa e dei processi di sviluppo, economico o ordinamentale, utili al fine di giustificare i criteri di scelta dei progetti operativi generati dagli accordi, e al coinvolgimento dei fattori materiali, con rilievo accessorio rispetto a quelli immateriali. Così, la politica di valorizzazione di un sito o un luogo di interesse culturale, che potrebbe avere già ricevuto l’attenzione istituzionale di un’organizzazione internazionale in ambito multilaterale (per via dell’outstanding universal value), può essere potenziata dal rilievo dei fattori immateriali di indipendente valore, come le relazioni storiche e le condizioni di sviluppo di distretti, aree, sedimenti intellettuali dalle ricadute pratiche nelle relazioni di scambio e interesse ed elementi culturali di contatto potenzialmente rilevanti a questi fini. (f) Le ricadute operative dell’ambiente del trattato sono progetti e azioni pratiche dall’alto valore aggiunto, che possono confluire in database per la sua migliore organizzazione. Più ampiamente, l’obbiettivo è generare big data dei fattori immateriali relativi agli scambi tra i Paesi, che diventi patrimonio comune, al fine del migliore e più immediato orientamento delle richieste ed aspettative di cittadini e organizzazioni interessate alle relazioni con gli altri Paesi, oltre che fornire supporto alle politiche governative. Il patrimonio immateriale culturale, oggetto di raccolta, è costituito dalle peculiarità formative dei singoli, conoscenze operative, e dagli aspetti della cultura d’impresa (distinti dalle politiche commerciali). La valorizzazione dei talenti dei singoli implica il venir meno delle asimmetrie informative tra le culture, così che possa essere accresciuta l’efficienza dell’agire sociale nelle relazioni internazionali senza impedimenti conoscitivi. Le ricadute pratiche della conoscenza, come si vedrà, possono essere attuate da specifici centri organizzativi della conoscenza. La cultura imprenditoriale può essere indirizzata in questo modello di efficientamento a partire dai fattori immateriali delle imprese familiari, che tendenzialmente sfuggono alla considerazione strategica negli indirizzi economici degli Stati. La costruzione di network riferibili a queste aree di operatività, i passaggi generazionali, le politiche familiari di lungo periodo sono un fattore di sviluppo che precede e accompagna l’argomento economico, che può essere oggetto solo di indiretta attenzione di un trattato proculturale. (g) Una parte ulteriore del patrimonio culturale immateriale è riferibile al coordinamento delle aree di interesse del trattato con quanto oggetto di accordi precedenti, anche in ambito multilaterale, con l’obbiettivo di una convergenza. In sintesi, la cultura intesa in questa accezione generale e operativa può (1) essere rivalutata come fonte di strategie preventive delle asimmetrie informative tra Stati, per delineare uno sviluppo realizzativo nelle scelte dei singoli e nell’interesse degli Stati; (2) sviluppare formazione e promozione come modello strategico indipendentemente dal modello governativo; (3) diventare strumento di relazione per attori istituzionali, supportando le carenze o gli ostacoli delle politiche multilaterali. Uno spazio a parte merita l’argomento del governo delle iniziative e delle operatività del trattato, che può essere affidato a un organismo a struttura snella, ai fini della migliore gestione e del costante controllo degli aspetti attuativi del trattato.

L’Agenzia di Scopo

Nella traiettoria dell’impiego della cultura come leva delle relazioni internazionali, la promozione delle relazioni culturali tra i Paesi non dovrebbe più provenire primariamente da organizzazioni internazionali o intergovernative, ma potrebbe essere organizzata e governata da una specifica agency con sede in entrambi i Paesi, definibile più precisamente come Agenzia di Scopo, prevista dal trattato stesso come una modello alternativo di regolazione dei fattori immateriali tra due Paesi, e alternativo o sussidiario alla disciplina degli ordinamenti interni. È una proposta riferibile alle relazioni tra Stati che tiene conto del fatto che i trattati internazionali costituiscono generalmente fonte primaria del diritto, e garantiscono pertanto un livello di istituzionalizzazione dei rapporti che è in grado, per natura ordinamentale, di affiancarsi ad altri strumenti già in uso in altri livelli di regolamentazione, formando un organismo interdipendente ed estremamente agile. Uno strumento di questo genere consentirebbe, pertanto, di abbattere ostacoli burocratici nella cornice del controllo degli Stati ed essere di supporto funzionale alle diplomazie e ai governi. A ciò si aggiunge che l’ambito della cultura, impiegato come strumento di efficienza delle relazioni, si presta ad essere poco invasivo nella sfera del diritto e molto progettuale in quella socio-economica. Nell’organizzazione istituzionale, questo modello richiama alla memoria alcuni tratti dell’azione governativa americana sotto la presidenza di Franklin D. Roosevelt, nel programma delle New Deal agencies. In un momento storico di grande depressione economica e sociale, Roosevelt utilizzò strumenti istituzionali intermedi per realizzare risultati apprezzabili in diversi campi, aumentando le informazioni disponibili alla predisposizione di una linea di governo e riducendo i tempi di esecuzione delle decisioni e di organizzazione della governance. In altro tempo e nel contesto specifico dell’impiego della cultura come leva del diritto internazionale, l’Agenzia di Scopo è un organismo che può assumere una dimensione istituzionale di regolazione e di bilanciamento tra gli obbiettivi delle politiche internazionali degli Stati e l’interesse dei cittadini, potenziando il percorso degli attori che promuovono le relazioni tra due Paesi. Allo stesso tempo, l’Agenzia di Scopo ha attitudine a delineare la sussidiarietà che molti documenti internazionali recenti incentivano, in quanto proiettata a congiungere l’operatività dal basso con gli scopi istituzionali degli Stati. Ciò che darebbe rilievo diverso, rispetto a quanto attualmente è presente in campo sul piano diplomatico, sono almeno due fattori: (1) l’Agenzia di Scopo può fornire una raccolta di informazioni precisa sulle relazioni internazionali e sui contenuti immateriali che possono fornire supporto alle decisioni governative; (2) il lavoro di tutti gli attori che agiscono nell’Agenzia di Scopo può essere incentrato su un modus operandi costante, basato sulla cultura come conoscenza operativa e votata alla formazione e alla produzione di progetti e azioni comuni. Con queste premesse, sarebbe attivabile la programmazione dei competenti Ministeri verso obbiettivi più certi e meno dispersivi, con riferimento al più ampio contesto multilaterale. Ciò accadrebbe anche nelle alterne fasi legislative o nei momenti di crisi (economiche o sanitarie), resistendo ai periodici mutamenti delle cariche e impegnando gli organismi di raccordo governativo in azioni di coordinamento ed esecutive più puntuali e di lungo periodo. In merito alla composizione dell’Agenzia di Scopo, la via preferenziale è la compartecipazione paritaria di pochi rappresentanti dei due Stati, con diritto di promozione delle iniziative e di veto per ciascuno di essi in riferimento ad ogni iniziativa o progettualità che scaturirebbe in conseguenza del trattato. Al fine della miglior organizzazione, rilevante sarebbe la presenza di una sede dell’agency in ciascuno dei Paesi contraenti, con una robusta struttura di coordinamento. Il funzionamento dell’Agenzia di Scopo è coerente all’inclinazione pratica del trattato; pertanto, dovrebbe riflettere un rapporto immediato tra un’area istituzionale e un’area di tipo manageriale, con l’obbiettivo per i rappresentanti governativi di creare aree di interesse e operatività presiedute da project manager. Il finanziamento dell’istituzione potrebbe essere aperto sia a contributi pubblici, sia legato alla partecipazione di soggetti privati per singoli progetti, nella piena disponibilità attuativa dei rappresentanti governativi a capo dell’Agenzia. In realtà, il valore aggiunto del modello, risiede nella sua prevedibile poca onerosità attuativa rispetto alle ricadute di medio e lungo periodo sull’economia. Per dare maggiore impulso alle realizzazioni operative, lo sviluppo dell’istituzione potrebbe addirittura creare un’esperienza giuridica nuova nell’ambito della gestione di alcuni fattori immateriali, portando gli Stati ad affrancare progressivamente, dalle normative interne, la tutela dei prodotti dell’ingegno e delle azioni comuni scaturite in conseguenza del trattato, così da rendere ancora più attraenti i fattori di scambio e cooperazione internazionale. Con queste premesse, in una struttura coerente ed agile, dall’Agenzia di Scopo possono scaturire infinite applicazioni, declinabili nella sfera gestionale di knowledge center e raccolti in un database che diverrebbe il patrimonio in crescita costante tra gli Stati.

Per una sintesi dell’architettura del trattato proculturale:Tabella sintesi dell’architettura del trattato proculturale:

La cultura come bene socio-economico

Per completare una ricognizione sull’assetto della cultura come strumento innovativo delle relazioni internazionali, va definito quale sia lo specifico ambito di impiego di tale elemento rispetto ai rilievi economici e sociali, così da identificare con maggiore precisione il contenuto di un Trattato culturale bilaterale. Intanto la cultura e la conoscenza sono inquadrabili come beni dotati di valore, in grado di attuare ricadute economiche sulla base della percezione della loro importanza nella costruzione di nuovi o più efficienti assetti produttivi, rispondendo in tal modo a determinati bisogni (Menger, 1925). Il valore della cultura sul piano economico non risiede nella logica degli scambi commerciali, ma nella potenzialità produttiva della conoscenza, dei talenti e della cultura di impresa. Le relazioni costituiscono un patrimonio immateriale ad alto valore aggiunto tuttora orfano di istituzioni in grado di rivelarne le potenzialità di efficientamento a beneficio delle economie interne e degli interessi degli Stati, oltre che dei cittadini. Essenziale in questo quadro di riferimento è quella parte dell’economia che si riferisce alla conoscenza come fattore di crescita. “Economia della conoscenza” è un’espressione coniata da Peter Drucker, con la quale si intende l’utilizzo delle informazioni per generare valore, con particolare attenzione a natura, creazione, diffusione, trasformazione, trasferimento e utilizzo della conoscenza in ogni sua forma (Drucker, 1966; Catalyst, 2017). La Scuola economica austriaca ha coniato una prima visione della conoscenza e dell’informazione come fattori in grado di accompagnare lo sviluppo socio-economico (Von Hayek, 1945), e successivamente tale elemento è stato espresso nel contesto di una Teoria della Crescita (Solow, 1956). Nelle strategie di lungo periodo della crescita economica, la conoscenza costituisce quell’aspetto (spesso sfuggente, eppure decisivo) che è in grado di sostenere lo sviluppo delle politiche economiche degli Stati anche quando fattori comprimari, quali il capitale e il lavoro, producono nel tempo rendimenti decrescenti. Tale peculiarità è stata illustrata dal Premio Nobel Paul Romer secondo il presupposto per il quale la conoscenza è un bene non rivale e non escludibile ossia, in altri termini, il cui impiego da parte di un individuo non riduce né esclude l’impiego altrui del medesimo bene (Romer, 1990). In sostanza si tratta di un elemento egualitario, che non impegna in modo immediato questioni dirimenti e necessitanti tutela, in ragione di interessi divergenti. Data questa premessa, la cultura, di cui finora si è dato conto, è quel complesso di elementi immateriali che permettono agli attori sociali di conseguire una realizzazione, dando beneficio a se stessi e alla comunità di riferimento, secondo una prospettiva economicamente “non rivale” e “non escludibile”, e in un ambiente dove la percezione del valore della cultura è alta in quanto in grado di realizzare interessi comprimari dei cittadini e degli Stati. Tutti gli aspetti in grado di esprimere una possibilità di sviluppo possiedono questa proprietà, sia che contemplino la dimensione creativa, formativa, sia che riflettano i legami con i fattori materiali della cultura (opere, monumenti) o quegli aspetti diffusi che formano i caratteri di un popolo o di una regione, purché posti verso un certo orizzonte realizzativo dinamico. Con questa premessa, la distinzione tra fattori materiali e immateriali della cultura, delineata precedentemente, perde di significato in un contesto culturale bilaterale, così come la narrativa simbolica della cultura operata nei contesti dell’identity politics e del multiculturalismo. L’obbiettivo di un Trattato culturale bilaterale consiste nel raccogliere informazioni, concedere accessibilità, diminuire le asimmetrie informative e determinare una spinta agli scambi di quei fattori immateriali che consentono alle relazioni tra cittadini e gruppi di due Paesi di diventare strumenti di sviluppo, accompagnando ogni altra politica governativa interna, bilaterale o multilaterale.

Conclusioni

In conclusione, ai fini del rinnovamento delle relazioni internazionali la proposta della proculturalità assume valenza strategica in grado di assorbire e abbattere ogni limitazione evidenziata da altri modelli, poiché definisce la cultura nella prospettiva di orizzonti realizzativi e di relazioni non dispersive, senza delineare aspetti di crisi come punto di partenza delle politiche internazionali. Il Trattato internazionale proculturale bilaterale è lo strumento in grado di cambiare alcuni assetti di efficienza del diritto internazionale, sostenendo una prospettiva bilaterale sia come fattore di autonomo sviluppo delle relazioni tra due Paesi, sia come elemento di maggiore spinta delle relazioni multilaterali e dei Trattati delle organizzazioni internazionali, potenziandone gli effetti e senza dover rendere conto di obbligate generalizzazioni. Sul piano dell’organizzazione internazionale il modello dell’Agenzia di Scopo, come agency inclusa e disciplinata dal Trattato bilaterale culturale, è lo strumento più agile per perseguire le finalità delle relazioni tra due Paesi, coniugando con meno burocrazia le aspettative dei singoli e gli obbiettivi di sviluppo economico e sociale degli Stati.

(pubblicato il 27.1.2021, aggiornato al 30.9.2021)

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